Il porto della Spezia ha da sempre rappresentato un’anomalia nel quadro delle gestioni portuali nazionali.
In particolare già prima della legge di riforma delle gestioni portuali n. 84 del 1994 e dei “decreti Prandini” del 1993, con i quali si stabiliva l’abrogazione del lavoro in riserva a favore delle Compagnie dei Lavoratori Portuali, nei terminal portuali spezzini si registrava una significativa presenza di ditte operanti nelle attività ancora oggetto di riserva, nella migliore delle ipotesi iscritte al Registro di cui all’art. 68 del codice della navigazione.
La dimensione delle risorse impegnate in tali attività in capo alle diverse ditte corrispondeva a circa quattro volte il complessivo dei soci della locale Compagnia.
Naturalmente, non sussistendo per queste l’obbligo di iscrizione al Registro dei Lavoratori Portuali tenuto dall’Autorità Marittima, perché formalmente inesistenti e, comunque, perché dedicato ai soli lavoratori delle Compagnie essendo gli unici titolari del lavoro, anche la presenza di lavoro irregolare assumeva dimensioni significative.
L’Autorità portuale della Spezia, dal 1995, avviò un’azione di duro contrasto al lavoro irregolare ed impedì l’intervento in operazioni portuali alle realtà iscritte al registro di cui all’art. 68 del codice della navigazione.
La legge di riforma introdotta nel 1994 evidenziava il ruolo pubblico dei porti, configurando quindi tutta l’attività portuale come un servizio pubblico, o meglio, di pubblico interesse, attribuendo alle Autorità Portuali ruolo di coordinamento e controllo delle attività stesse, salvaguardandone il carattere pubblico (distorsioni della concorrenza, pratiche discriminatorie, abusi di posizione dominante, ecc.).
Nel tentare di definire un modello organizzativo relativo al lavoro portuale occorreva riconoscere il ruolo assegnato alle Autorità Portuali, e cioè della titolarità di una determinata area portuale, ammettendo un principio di autonomia e decentramento decisionale, sia in ordine alle grandi opzioni socio-economiche di carattere territoriale, sia in ordine alle modalità realizzative di sviluppo e di gestione.
Chiaramente il livello decisionale decentrato non poteva essere assunto come variabile indipendente rispetto alle scelte di carattere nazionale, in questo senso ne conseguiva la necessità di ricercare una mediazione tra un riferimento di carattere generale e l’atipicità della realtà locale.
Il modello organizzativo spezzino, nato in risposta alle esigenze dello scalo conseguenti al forte incremento di traffici di quegli anni, ha di fatto trovato risposta nelle previsioni della legge 84/94.

Tenendo tuttavia conto del consolidamento, da parte delle imprese concessionarie, del ricorso all’appalto di specifici segmenti operativi riconducibili al loro ciclo produttivo (outsourcing), fino al 1993 in riserva alle Compagnie Lavoratori Portuali, l’Autority consentì lo svolgimento di tali attività esclusivamente ad imprese autorizzate ai sensi dell’Art. 16 Legge 84/94. Tutte le attività comprese nel ciclo operativo esercitate in ambito portuale, compreso il  rizzaggio, svuotamento e riempimento contenitori ecc., erano assoggettate ad autorizzazione ex art. 16.
Pare interessante notare il ricorso alle imprese autorizzate ex art. 16 anche da parte della stessa Compagnia.
Occorre comunque ricordare che, ai sensi dell’Art. 18 della L. 84/94 le imprese concessionarie dovevano esercitare direttamente l’attività per la quale avevano ottenuto la concessione.
Le imprese autorizzate   operavano quindi in regime di appalto, assumendo a pieno titolo la diretta ed esclusiva organizzazione ed esecuzione di specifiche parti, a loro affidate, del ciclo produttivo dell’impresa concessionaria e che, per quanto esposto in precedenza, non potevano avere altra caratteristica che di supporto all’attività oggetto di concessione. Pertanto, quando si parlava di lavoro portuale, occorreva considerare l’attività svolta dalle imprese autorizzate, impiegate ordinariamente dall’impresa concessionaria, come elemento integrante e non occasionale, del ciclo produttivo portuale, con piena autonomia gestionale ed organizzativa.
Ai fini del rilascio dell’autorizzazione, i requisiti richiesti ai sensi del Regolamento dovevano sussistere in capo a ciascuna impresa autorizzata; pertanto, non erano ammesse forme di collaborazione contrattuali o istituzionali con altre imprese, finalizzate ad eludere la sussistenza degli stessi.
Inoltre, al fine di evitare forme ambigue di lavoro in banchina dovute all’indeterminatezza dei ruoli e delle funzioni, poteva essere autorizzata una sola impresa per uno o più specifici segmenti operativi riconducibili al ciclo del concessionario, avendo inoltre cura di evitare ogni promiscuità operativa anche per attività complementari. Il rilascio di più autorizzazioni per la medesima tipologia operativa ed in capo allo stesso committente non avrebbe avuto alcun senso se non quello di favorire una competizione tra le imprese autorizzate i cui effetti si sarebbero scaricati sugli aspetti tariffari e quindi sulle condizioni di lavoro e dei lavoratori.
Non era ammesso, in alcun caso, lo scambio di manodopera tra soggetti contemporaneamente autorizzati ex Art. 16.
L’Autorità Portuale aveva quindi il compito inderogabile di svolgere un’attenta attività di controllo in merito alla sussistenza delle suddette condizioni indispensabili ad affermare la legittimità dell’appalto.
Quindi, ai fini dell’ottenimento della prescritta autorizzazione ai sensi dell’Art. 16, le imprese avevano l’obbligo di dimostrare all’Autorità, tra l’altro, di poter disporre del personale dipendente idoneo all’espletamento delle attività programmate, presentando un piano di impresa rappresentato da regolare contratto di appalto, anche pluriennale.
Il numero delle imprese autorizzate fu così contingentato sulla base delle condizioni suddette e, ovviamente, molte delle imprese operanti al di fuori di ogni prospettiva di legittimità uscirono dallo scenario portuale, avendo comunque cura di non determinare effetti sul piano occupazionale.
In tale contesto si possono comprendere anche le società di autotrasporto che operavano la movimentazione merci all’interno dei terminal ed iscritte anch’esse al Registro delle imprese di cui all’Art. 16 L. 84/94. Tuttavia, al fine di evitare   un’estrema   ed incontrollabile frammentazione delle   imprese dedicate allo svolgimento di tale attività, sono state ammesse anche società a carattere consortile e consorzi tra piccole imprese di trasporto.
Pertanto qualsiasi attività afferente al ciclo portuale doveva essere svolta da imprese autorizzate ex art. 16.
Nel 2018 la nuova Autorità di sistema ha inteso adottare una diversa interpretazione del modello organizzativo portuale: ha autorizzato un’impresa, ex art. 16, ad operare per conto del terminalista più importante dello scalo spezzino, nei medesimi segmenti operativi già in appalto ad una diversa società. L’eccezione fonda sulla dichiarata condizione di operatività presso un accosto diverso ancorché in concessione allo stesso terminalista.
Due le osservazioni che mi permetto di proporre quali elementi di riflessione.
In primo luogo l’utilizzazione dell’accosto di cui trattasi rientra in un piano di impresa che, pare, sia stato disatteso dallo stesso concessionario per diversi motivi. Pertanto pare non di semplice comprensione come lo stesso accosto possa assumere rilevanza ai fini del piano di impresa dell’appaltatore. Infatti, allo stato attuale, l’impresa opera contestualmente all’altra già autorizzata non solo presso il medesimo accosto ma addirittura contemporaneamente sulla medesima nave.
Il secondo aspetto rileva l’attenzione della legge posta alla tutela della concorrenza, non limitandosi a considerare illecito l’abuso di posizione dominante ed escludendo espressamente la possibilità che allo stesso terminalista possa essere affidata la gestione di più di un terminale, a meno che, e questa rappresenta una delle due eccezioni previste, quando le attività che il terminalista svolge nei terminali tratti in concessione siano effettivamente diverse, mentre non si ritiene sia sufficiente, ai fini di escludere il venire in rilievo del divieto stesso, che il terminalista adibisca i terminali allo scarico di merci diverse. Ma non è questo il caso.
Pare evidente come tale circostanza possa costituire un pericoloso riferimento per l’organizzazione del lavoro in porto. Altre istanze analoghe sarebbero difficilmente contrastabili, andando a ricreare il modello incontrollato del periodo ante riforma.
L’ambito portuale costituisce area ad economia regolata, in virtù di apposite norme primarie o secondarie che contribuiscono a disciplinare gli assetti del mercato. Tale regolazione si realizza, non solo selezionando le imprese che intendono accedervi in virtù di specifici parametri comunque rivolti a valutare la loro efficienza, ma anche disciplinando ed assoggettando a controllo la loro attività affinché sia coerente con l’interesse pubblico e segnatamente con un obiettivo di efficienza complessiva del sistema.
L’Autority è chiamata ad assegnare gli spazi, scegliere i prestatori di servizi di interesse generale e selezionare le imprese sul mercato vigilando affinché non si realizzino condizioni distorsive rivolte a rafforzare la posizione sul mercato di talune a scapito di altre.
Dal 1994 e fino al 2018 l’esercizio delle attività portuali, fatto salvo il servizio di fornitura di manodopera temporanea di cui proporrò alcuni cenni, è stato pertanto efficacemente disciplinato dall’apposito Regolamento adottato dall’Autorità Portuale, considerando opportunamente il rapporto tra soggetto terminalista ed impresa autorizzata, rispettando i criteri di competitività e di dignità del lavoro.
La flessibilità nella gestione delle risorse umane conseguente alla tipicità del lavoro portuale è condizionata dall’indeterminatezza dei traffici e si riflette inevitabilmente sull’organizzazione del lavoro all’interno delle imprese portuali, tuttavia è possibile declinare diversi livelli di programmabilità del ciclo produttivo in banchina in virtù delle diverse tipologie di traffico con riflessi diretti sul grado di flessibilità richiesto all’organizzazione del lavoro all’interno dello scalo.
In tal senso pare opportuno evidenziare come le scelte operate dalla locale CLP, unitamente alla determinazione della commissione consultiva locale in merito all’adeguatezza della forza lavoro complessiva nello scalo al traffico che vi si realizzava, abbiano minato la possibilità di realizzare società ex art. 17. E’ venuta meno anche la possibilità di creare un pool di società ex art. 16, sul modello di importanti scali europei, per far fronte ad esigenze di lavoro temporaneo in controtendenza con la maggior parte degli scali dove si sostanzia un sovradimensionamento del pool di lavoro temporaneo a fronte di una inadeguatezza numerica dell’organico delle imprese art. 16 e dei terminalisti presenti in porto.
Tuttavia, una risposta alla variabilità degli organici connessa alla variabilità del lavoro in termini di tempo molto brevi, viene dall’attuale legislazione in materia di lavoro portuale, vale a dire la Legge 84/94 e s.m.i., che adegua, al settore specifico, principi contenuti nella legislazione generale, con particolare riferimento al lavoro flessibile ed interinale.
Peraltro, le peculiari caratteristiche organizzative di tale attività rendono inapplicabili le norme generali che disciplinano gli aspetti di gestione flessibile delle stesse.
Quindi non pare coerente neanche a questa fattispecie la scelta di autorizzare più imprese per l’esercizio delle medesime attività da parte del medesimo concessionario.
Chiaramente nessuna ricaduta in termini di flessione del livello occupazionale può rappresentare effetto di tale condizione; infatti, la valutazione effettuata per il rilascio dell’autorizzazione ex art. 16 avrà ben tenuto conto delle esigenze di organico rapportate all’effettiva necessità operativa.
Ne consegue che le risorse oggi impegnate potrebbero trovare giusta collocazione presso la società già titolare dell’appalto o presso la società concessionaria.
Certamente a sostegno di questo provvedimento organizzativo sussisteranno valide ragioni a me non note e frutto di competenti valutazioni, tuttavia mi pare certo che la frammentazione dell’appalto riporta il nostro scalo indietro di trent’anni.